mercoledì 22 aprile 2009

La guerra del Kosovo

La guerra del Kosovo fu un conflitto armato riguardante lo status della provincia autonoma serba del Kosovo, allora compresa nella disciolta Repubblica federativa di Iugoslavia.

La lotta per l'autonomia del Kosovo dalla Serbia, guidata da una parte della maggioranza di etnia albanese,concluse il processo di disfacimento della federazione iugoslava, già avviato con la fuoriuscita prima della Slovenia e poi della Croazia, nel quadro di nazionalismi contrapposti che ha segnato e segna le vicende balcaniche a cavallo tra il XX e il XXI secolo.

In quel clima e con il nascere e crescere dei vari nazionalismi l'insofferenza aveva cominciato a sfumare, in alcune frange, dalle rivendicazione autonomiste a quelle indipendentiste. Già dopo la concessione dello status di autonomia alla provincia cossovara gli appartenenti all'etnia albanese (che si distinguono tra i musulmani e i cristiani) dimostrarono (inizi degli anni ottanta) che con questa autonomia non si sarebbero accontentati. A quell'epoca l'unica repubblica dell'allora Jugoslavia ad aver concesso una forma di autonomia alle proprie minoranze era appunto la Serbia; di preciso si trattava della Vojvodina al nord e del Kosovo e Metochia al sud. Nonostante questo lo slogan Kosovo republika cominciò a farsi sentire sempre di più nelle manifestazioni di piazza a Pristina e in altre parti del Kosovo. Gli albanesi, infatti, chiedevano che il Kosovo diventasse la settima repubblica della Iugoslavia socialista e, quindi, che si distaccasse dalla Serbia. Così facendo il Kosovo avrebbe potuto fare come la Slovenia e la Croazia, cioè al momento opportuno dichiarare l'indipendenza senza dover fare i conti con Belgrado.

Il conflitto precipitò alla fine degli anni ottanta: nel marzo del 1989 l'autonomia della provincia risalente alla costituzione della Repubblica iugoslava di Tito (che era una repubblica federativa con diritto di secessione unilaterale delle varie repubbliche federate ma non anche delle province autonome) venne revocata su pressione del governo serbo guidato da Slobodan Milošević visto il precipitare della situazione. Fu, tra l'altro, revocato lo status paritario goduto dalla lingua albanese-cossovara (fino ad allora lingua co-ufficiale nel Kosovo accanto al serbo-croato), chiuse le scuole autonome, rimpiazzati funzionari amministrativi e insegnanti con serbi o persone fedeli (o ritenute tali) alla Serbia.

Dal 1989 al 1995 la maggioranza della popolazione d'etnia albanese del Kosovo mise in atto una campagna di resistenza non violenta sotto la guida del partito LDK e del suo leader Ibrahim Rugova. Dopo la fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, tra i cossovari (in maggioranza musulmani) nacquero e si rafforzarono in breve tempo formazioni armate (sovente guidate da veterani di quella guerra) con dichiarati intenti indipendentisti.

La guerra del Kosovo si può dividere in due fasi distinte:

1. 1996 - 1999: furono i separatisti albanesi dell'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o KLA, Kosovo Liberation Army, "Esercito di liberazione del Kosovo") contro le postazioni militari e contro le entità statali. Successivamente ci fu una repressione sempre più dura da parte della polizia e, più tardi, da parte di forze paramilitari ispirate da estremisti serbi.

2. 1999: intervento NATO contro la Serbia. Per tutto il 1998, mentre la guerriglia sul terreno si espandeva e la repressione delle forze di sicurezza serbe si faceva via via più pesante e sanguinosa, la NATO adottò una politica di dissuasione e minaccia contro il governo della Repubblica federale iugoslava guidato da Slobodan Milošević.

Esercitando forti pressioni, l'Alleanza atlantica ottenne l'avvio dei negoziati di Rambouillet, che si conclusero positivamente nonostante la resistenza dei rappresentanti dell'UÇK a firmare un documento nel quale era formalmente garantita l'autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Tale resistenza fu superata grazie alle pressioni degli USA, che godevano di grande prestigio presso l'UÇK e la delegazione Cossovara grazie alla loro politica di sostegno. Alla ripresa di Parigi, di lì a pochi giorni dalla conclusione di Rambouillet - una sessione non politica che avrebbe dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo - la delegazione serba abbandonò sin dall'inizio la seduta rimettendo in discussione gli esiti politici di tutta la trattativa, dichiarando che non accettava più quella che considerava una indipendenza di fatto mascherata da autonomia. I serbi si sentirono presi in giro e provocati.
La parte serba fu di fatto costretta ad abbandonare il negoziato a seguito di due elementi-chiave introdotti, per impulso degli Stati Uniti, alla vigilia della firma dell'accordo. In primo luogo, il 22 febbraio, il Segretario di Stato USA, Madeleine Albright, si impegnò, verso la parte cossovara, a garantire, entro tre anni, il distacco del Kosovo dalla federazione; in secondo luogo, fu introdotta un'appendice (Appendice o Annex B) alla parte militare dell'accordo che prevedeva, di fatto, l'occupazione militare dell'intera federazione serba da parte della NATO. Tale misura, inaccettabile per qualsiasi stato sovrano, era tanto più irricevibile, in quanto la Costituzione federale vietava, sin dai primi anni '70, lo stazionamento di truppe straniere sul territorio iugoslavo.
Particolarmente significativo fu il commento di Henry Kissinger, ex segretario di Stato americano, che definì il testo:
« Il testo di Rambouillet, che chiedeva alla Serbia di ammettere truppe NATO in tutta la Iugoslavia era una provocazione, una scusa per iniziare il bombardamento. Rambouillet non è un documento che un Serbo angelico avrebbe potuto accettare. Era un pessimo documento diplomatico che non avrebbe dovuto essere presentato in quella forma (The Rambouillet text, which called on Serbia to admit NATO troops throughout Yugoslavia, was a provocation, an excuse to start bombing. Rambouillet is not a document that an angelic Serb could have accepted. It was a terrible diplomatic document that should never have been presented in that form) »

(Henry Kissinger al Daily Telegraph, 28 giugno 1999)

Da Aviano e dalle altre basi NATO italiane presero il volo i caccia bombardieri. Dopo la decisione della NATO, il governo D'Alema autorizzò l'utilizzo dello spazio aereo italiano. Fu il secondo intervento militare italiano a carattere offensivo dalla fine della seconda guerra mondiale, dopo la prima guerra del golfo contro l'Iraq nel 1991; le precedenti missioni in cui era stata coinvolta l'Italia riguardavano l'ONU o l'UE, e non avevano impegnato l'aeronautica se non in funzione prevalentemente logistica e d'appoggio.




La stampa di quel periodo notò il ruolo di Madeleine Albright, Segretario di Stato USA sotto la presidenza di Bill Clinton. L'equivalente americano del nostro ministro degli esteri spingeva per un intervento militare, mentre l'amministrazione americana era propensa alla neutralità, vedendo il Kosovo più come una questione europea. La Albright, come alcuni giornali notarono, è ebrea di origine polacca e visse in prima persona l'esodo forzato di un popolo e le deportazioni naziste durante la Seconda guerra mondiale, fatti che furono paragonati a quelli compiuti dai serbi sulla popolazione albanese cossovara.

Una tesi che presenta la guerra in Kosovo come guerra mediatica, gonfiata dalle televisioni occidentali, è sostenuta da alcuni giornalisti, tra cui un articolo apparso sul quotidiano italiano La nazione. Secondo l'articolo, infatti, alla fine del 1989, la CNN, prima fra le TV occidentali, iniziò a trasmettere ogni giorno filmati di stragi compiute dai serbi sui cossovari. Si trattava di due episodi in cui rimasero uccisi 205 civili, mentre venivano messi in onda spezzoni sempre diversi dello stesso filmato, in modo che sembrasse che in Kosovo fosse in corso un genocidio. Se ciò fosse dimostrato, si ridimensionerebbe la proporzione tra un pericolo di genocidio da parte dei serbi e l'intervento armato sua conseguenza.

Il 24 marzo 1999 l'Alleanza Atlantica prese atto del fallimento dei negoziati ed iniziò (senza un provvedimento in questo senso da parte dell'ONU, a causa del minacciato veto di Russia e Cina) alcune operazioni militari di dissuasione nella speranza di ottenere una replica di quanto già avvenne per i negoziati per il conflitto bosniaco, dove anche lì la delegazione serba abbandonò improvvisamente la trattativa riprendendo immediatamente le operazioni militari. In quella occasione poche operazioni militari di dissuasione sulle linee serbe convinsero il regime di Milosevic a ritornare al tavolo delle trattative e a firmare (e rispettare) la fine del conflitto. Tale circostanza non si ripeté nel caso del Kosovo, presumibilmente perché Milošević - che puntava in modo piuttosto trasparente ad una sua spartizione, tra Serbia e Albania - riteneva di potere contare su determinate alleanze, o semplicemente su di un mutato quadro internazionale che pensava avrebbe giocato a suo favore. La Cina aveva manifestato una netta contrarietà nei confronti della neonata repubblica di Macedonia (verso la quale l'esercito serbo cercò di spingere la popolazione del Kosovo in fuga) a causa del riconoscimento di Taiwan da parte di quest'ultima, circostanza che sembra essere stata la motivazione dominante della minaccia di veto cinese ad ogni intervento in sede ONU.

La Russia aveva iniziato un recupero della conflittualità con gli USA in chiave nazionalista, e inoltre tra Russi e Serbi esiste storicamente un legame particolare su base etnico-religiosa. La NATO iniziò quindi una escalation di bombardamenti aerei su tutto il paese che sono durati oltre due mesi (operazione Allied Force). I jet della NATO partivano soprattutto da basi militari italiane, come quella di Aviano, in Friuli-Venezia Giulia. In media, la Serbia subiva almeno 600 raid aerei al giorno. Il numero esatto di vittime della guerra, sia serbe che albanesi, militari e civili, non è ancora oggi conosciuto con esattezza, ma è presumibile sia dell'ordine di qualche migliaio. Si tratta di una ulteriore tragedia che si somma a quella dei dieci precedenti anni di conflitti balcanici, che hanno fatto circa 250.000 vittime, in gran parte civili.
Nel corso del conflitto ci sono stati diversi gravi episodi: in un'occasione un attacco aereo colpí un convoglio di civili in fuga facendo una strage. Un'altra volta, un missile finí per errore in Bulgaria, senza provocare danni. Tra le infrastrutture prese di mira anche alcuni ponti e centrali elettriche (bombardate con bombe alla grafite che non provocano danni permanenti, ma solo un black-out). Fu anche bombardata e distrutta la torre della televisione (gli oppositori di Milošević in Serbia sostenevano che il personale era stato avvisato dell'attacco, ma gli era stato ordinato di rimanere nell'edificio), con 16 vittime tra giornalisti, funzionari ed impiegati. In seguito venne bombardata l'ambasciata cinese a Belgrado, nel convincimento che in quell'edificio fosse stata spostata la trasmittente della radiotelevisione Serba dopo la distruzione della sua sede. La vicenda creò una notevole tensione con la nazione asiatica. L'esercito serbo, e truppe "irregolari" facenti capo a movimenti ultranazionalisti serbi (che già avevano operato in Bosnia Erzegovina distinguendosi in massacri di civili ed operazioni di cecchinaggio) non mancarono di compiere diverse esazioni sulla popolazione del Kosovo, per provocarne la fuga e creare quello stato di fatto necessario alla realizzazione dell'obiettivo della spartizione. L'operazione militare, chiamata "ferro di cavallo", sarebbe stata preparata prima ancora delle trattative di Rambouillet, anche se prove definitive al di là di ogni ragionevole dubbio in tal senso non sono state fornite, o la stampa internazionale non ne ha mai dato un resoconto esauriente. In ogni caso l'esercito serbo sotto attacco NATO aumentò progressivamente la pressione sulla popolazione albanese, che iniziò a spostarsi verso la Macedonia e l'Albania. Il numero dei rifugiati raggiunse gli 800.000.

L'inevitabile capitolazione del governo serbo portò al dispiegamento della missione ONU KFOR, disposta dal Consiglio di sicurezza a seguito di un accordo "a posteriori" includente Russia e Cina, a guida NATO e con una significativa presenza di truppe russe, a garanzia della Serbia.

I rifugiati albanesi ritornarono ma cominciò un nuovo esodo, quello serbo. Migliaia di cittadini di etnia non albanese (serbi, montenegrini e gitani, in prevalenza) fuggirono dal Kosovo temendo -- e subendo -- rappresaglie albanesi (per altro protrattesi sino ai giorni nostri, a dispetto della presenza della KFOR), e si creò uno stato di fatto che perdura tuttora, con i serbi superstiti trincerati in gran parte nella Metochia (la parte serba del Kosovo) e gli albanesi nel Kosovo propriamente detto, impegnati a rendere "etnicamente pura" la provincia: basti pensare che, dopo la guerra, centinaia di chiese ortodosse vecchie più di cinquecento anni sono state distrutte (in diversi casi rase al suolo)
e che non uno dei 40mila residenti d'etnia serba di Pristina ha potuto farvi ritorno. Milošević fu arrestato il (1 aprile 2001) su mandato del tribunale internazionale dell'Aja, dopo molte titubanze del nuovo regime democratico, come imputato per crimini contro l'umanità. Il processo si è interrotto a poca distanza dalla sua conclusione, a causa della morte dell'imputato l'11 marzo 2006 per presunto arresto cardiaco.

Nel 2006 sono iniziati a Vienna nuovi colloqui bilaterali tra il governo serbo e quello cossovaro per la definizione finale dello status della provincia del Kosovo che ora ha ottenuto la piena indipendenza (marzo 2008) nonostante alcuni paesi non siano disposti a riconoscerla a causa del principio sulla quale è stata costruita, estremamente rischioso per la stabilità di quegli stati aventi al loro interno gruppi di minoranze.


Bujar Bukoshi: la mafia al potere


Ho incontrato Bujar Bukoshi, l'ex primo ministro del governo in Kosovo in esilio, nel Grand Hotel a Pristina. Attualmente è il leader del Nuovo Partito del Kosovo, senza alcun rappresentante in Parlamento. "Non sono in grado di garantire la mia stessa incolumità! Ho ricevuto molteplici minacce ed una volta uscito dall'hotel qualcuno potrebbe uccidermi. E' difficile dire ai serbi che possono rientrare in Kosovo e vivere una vita normale!". Secondo Bujar Bukoshi la comunità internazionale è naive sperando che serbi ed albanesi si bacino ogni mattina. "I civili serbi che non hanno commesso alcun crimine possono rientrare in Kosovo ma al momento il tasso di disoccupazione supera il 70% ed i serbi entreranno in queste percentuali, non avranno privilegi in merito", ha affermato Bukoshi.

Quest'ultimo è tra i più feroci critici dell'élite politica del Kosovo. "L'attuale politica è scontro. Gli attuali amministratori sono preoccupati di come arricchirsi, di come avere potere e soldi. Vi è una degenerazione degli ideali. Vi sono strutture mafiose che impregnano le alte sfere politiche. Dopo la guerra il partito di Hashim Taqi e l'AAK erano i partiti più mafiosi, ma attualmente l'LDK, la Lega Democratica del Kosovo, è doppiamente più mafiosa".

La febbre del sabato sera a Prizren

Prizren continua a mantenere l'atmosfera suggestiva data dal suo centro storico d'impronta ottomana. Molte delle case serbe sono però bruciate e nessuno gira liberamente in città. In centro i caffè, a pochi metri dal filo spinato che circonda la chiesa ortodossa bruciata nelle proteste del marzo 2004. Incontro alcuni giovani, seduti ai tavolini del Pasha café, al fianco della chiesa. Qual è il nome della chiesa ortodossa? Nessuna risposta.

A causa di una corrente elettrica che continua a mancare la sera non ci sono discoteche o night club ma a Prizren si respira una vera e propria febbre da sabato sera. Tanta gente e centinaia di ragazze e ragazzi che passeggiano lungo la via pedonale Prizrenska Bistrica, che costeggia il torrente che attraversa la città. I giovani emanano un'energia incredibile. Ma purtroppo il destino della maggior parte di loro è la disoccupazione. Circa 30.000 entrano ogni anno nel mercato del lavoro dove si scontrano con un tasso di disoccupazione del 55%. Allora non resta che sopravvivere grazie alle rimesse che arrivano dai parenti all'estero.

Kemal ha sessant'anni, indossa un copricapo bianco, tipico della tradizione albanese. "Il nome del torrente che attraversa Prizren è Ljumbardi, non Bistrica" mi dice. Kemal, circa 30 anni fa, è emigrato negli Stati Uniti, poi è tornato ed ora è proprietario di un ristorante di cucina italiana. Durante la nostra conversazione si rivolge ad un suo cameriere: "Portami una bottiglia d'acqua di quella imbottigliata in Kosovo, non in Serbia". Gli chiedo se è felice della sua situazione. "Contento proprio no, anche se me la cavo abbastanza bene. Sarò del tutto soddisfatto quando il Kosovo raggiungerà l'indipendenza".

Confraternite

Baba Mumin Lama, capo spirituale della confraternita sufi dei Bektasi, siede nella stanza degli ospiti del convento (tekke) di Gjakove/Dakovica. Non mi ha potuto accogliere nella stanza del culto perché quest'ultima è andata bruciata nel 1999. Alle sue spalle un poster di Yll Morina, soldato dell'UCK. "Era un Bektasi ed è morto per la libertà del Kosovo".

Un uomo dalla corporatura robusta entra nella stanza. E' il comandante locale del TMK, la protezione civile kosovara che da alcuni è percepita come il nucleo di un futuro esercito. E' anche lui un Bektasi. "Ho combattuto contro i serbi per due anni durante la guerra", afferma il comandante che in passato era ufficiale dell'esercito yugoslavo e che proprio a Belgrado ha ricevuto la propria formazione militare.

Il convento Bektasi di Gjakove/Dakovica ha ospitato per due anni, durante il sistema scolastico parallelo degli anni '90, scolari albanesi. Poi il '98 e '99, anni nei quali la confraternita è diventata oggetto di repressione. "Avevamo altri 4 edifici, ma sono stati bruciati durante la guerra" ricorda il Baba. "La Serbia voleva distruggere la cultura albanese" continua il comandante del TMK "proprio non capisco come mai i soldati serbi abbiano deciso di distruggere i 1400 volumi custoditi da secoli nella nostra biblioteca".

I Bektasi fanno parte dell'ordine dei Tarikats (dervisci) assieme ad altri sette gruppi: Kadri, Havleti, Nakshipendi, Rufai, Saadi e Shazeli. Sono tutti gruppi molto attivi nella vita sociale e politica della città. "Non vi sono dati certi sul numero di Bektasi in città. Certo non siamo in molti e se ci riuniamo ci stiamo in una sola grande stanza", afferma il Baba Lama. "Abbiamo buone relazioni con gli altri e visitiamo spesso gli Imam".

Le enclaves serbe

La vita della comunità serba dopo gli scontri del marzo 2004 è segnata da fatiche, frustrazione e mancanza di prospettive. A volte si incontrano storie di rifugiati che hanno dovuto abbandonare il Kosovo due volte: la prima nel 1999 e poi in seguito alle violenze di marzo. I serbi del Kosovo continuano inoltre a boicottare le istituzioni provvisorie del Kosovo e procedono con le proprie istituzioni parallele.

Ho cercato di andare a vedere dove fossero finiti i serbi obbligati nella primavera del 2004 ad abbandonare Kosovo Polje e che avevo incontrato l'estate successiva in un centro collettivo di Gracanica, a 5 chilometri da Pristina. Adesso 70-80 di loro vivono in containers. Nessuno è rientrato nelle proprie case.

Gracanica è un'enclave serba. Non vi vive alcun albanese e vi è situato uno dei monasteri principali della Provincia oltre alla sede del Centro di coordinamento per il Kosovo, istituzione creata dalle autorità di Belgrado per gestire la situazione dei serbi del Kosovo. Si respira un'atmosfera di forte disagio. "Questa è la calma prima della tempesta, la calma prima che il Kosovo divenga indipendente", afferma Dragan, 30 anni, commesso in un negozio.


Molti dei serbi di Gracanica hanno già comperato case in Serbia e si dichiarano pronti a partire immediatamente nel caso gli albanesi, che chiamano tutti con il termine peggiorativo "shiptari", ottengano l'indipendenza.

Mile e Nada, rifugiati per due volte

Pochi dei serbi attualmente residenti a Gracanica vi sono effettivamente nati. La maggioranza infatti è originaria di altre parti del Kosovo. Mile e Nada sono fratello e sorella, sulla cinquantina. Hanno vissuto in una piccola stanza nella facoltà di filosofia per più di un anno. Prima del 1999 avevano una piccola fattoria a Vucitrn, centro-nord del Kosovo, bruciata dagli albanesi. Poi si sono spostati in un centro collettivo di Kosovo Polje. "Eravamo come in un campo di concentramento, per cinque anni".
Monumento ai sei "caduti" del 1999 nell'enclave serba di Priluje (nord di Prishtine)


Il 17 marzo 2004 Mile e Nada sono stati obbligati a fuggire per la seconda volta. Alle 11 della sera un poliziotto albanese ha bussato alla loro porta dicendo loro di andarsene perché la folla furiosa si stava avvicinando e rischiavano la loro vita. Nada e Mila, dopo aver passato una notte con altre 200 persone riparati all'interno della stazione di polizia, hanno dovuto nuovamente andarsene e questa volta sono finiti a Gracanica. "Non ci sappiamo ancora spiegare come mai UNMIK e KFOR non siano stati in grado di difenderci", affermano. "L'unica possibilità che ci resta? Andarcene in Serbia, gli albanesi hanno raggiunto il loro obiettivo".

Mitrovica Nord, boicottaggio ed istituzioni parallele

Smilza Milisavlevic, ingegnere ed ex parlamentare nell'Asseblea del Kosovo, è membro del Partito dell'alternativa democratica. E' drastica descrivendo la situazione a Mitrovica: "Non so come saremmo riusciti a sopravvivere senza le strutture parallele garantite dalla Serbia. Chiediamo il diritto dei nostri figli ad essere educati nella nostra madrelingua e cultura".

Le autorità serbe pagano ai funzionari dell'amministrazione parallela stipendi sul livello di quelli corrisposti a Belgrado aumentati di un 50%, il tutto si aggira sui 200 euro mensili, una cifra relativamente alta. Ma il problema è che sono in molti ad essere disoccupati e che non esiste alcuna assistenza sociale, solo aiuti umanitari. Le pensioni di anzianità sono di 30 euro al mese. E questo significa miseria.

Anche Tzveta Vujicic è stata parlamentare presso l'Assemblea del Kosovo. E' laureata in medicina e prima della guerra lavorava a Pristina. Ora lavora presso una clinica Mitrovica Nord. Commenta un aumento drastico di forme tumorali. "Vi sono molti pazienti con varie forme di stress" racconta "a volte mi chiedo se almeno il 10% della gente che abita qui sia normale. Ho già preparato i miei documenti, se accade nuovamente qualcosa di simile al 17 marzo me ne vado da qui".

A suo avviso gli albanesi del Kosovo non se la cavano molto meglio. "A volte ingannano le case grandi in cui abitano. Ma i materiali da costruzione sono poco costosi e la manodopera ancora meno. Ma spesso sono case vuote, molti sono disoccupati. Vi è uno strato di popolazione molto ricca, ma la maggioranza vive con difficoltà".

Sia Smilza che Tzveta ritengono sia necessario un programma di assistenza per gli strati della comunità più disagiati. "La maggior parte delle persone nei villaggi-enclaves sono in una forte crisi economica. Basti pensare alla corrente elettrica: ogni mese ogni famiglia deve sborsare circa 50 euro e molti si trovano indebitati con la compagnia elettrica di 4-5.000 euro. Come fanno i disoccupati ad avere questi soldi? Lo Stato serbo deve perlomeno negoziare il pagamento delle bollette in arretrato".

Smilka poi spiega perché i serbi del Kosovo abbiano deciso di boicottare le istituzioni del Kosovo. "Il 17 marzo è stato realizzato un vero e proprio pogrom. Era impossibile organizzare elezioni pochi mesi dopo. La comunità internazionale ci dice che gli albanesi sono frustrati ma anche noi lo siamo e per questo abbiamo boicottato le elezioni. Perché la comunità internazionale spiega tutto con la frustrazione albanese? Se gli internazionali ci abbandonano possono anche preparare le nostre bare". Ma nessun ottimismo? "Ma siamo ottimiste, siamo qui, non ce ne siamo andate. Nel caso si realizzasse un vero decentramento amministrativo, vera autonomia, potremo stare qui a vivere".

Siamo "Noi"

Zhupa è una regione montagnosa nei pressi di Prizren. Vi abita una piccola comunità non-albanese, slavi convertiti all'Islam durante il periodo dell'Impero ottomano. Si identificano completamente con il posto in cui vivono. Definiscono la loro lingua "la nostra" – è un misto di lingue slave e turco - ed anche la loro comunità non ha un nome particolare se non "noi". Sono 12 i villaggi situati in questa regione.

L'occupazione tradizionale degli uomini è l'edilizia. Per secoli i capofamiglia sono partiti per lavorare all'estero. E le abilità di questa comunità si notano fin da subito in un paesaggio molto curato.
Al ristorante Fuki, nel villaggio di Recane, la televisione è sintonizzata sul canale Planeta TV, che trasmette tutto il giorno chalga, musica tradizionale bulgara reinterpretata in chiave dance. "Vengono anche molti albanesi in questo ristorante" mi dicono dei clienti "se al posto del chalga si trasmettesse turbo folk serbo il proprietario avrebbe parecchi problemi".

A 5 chilomteri da Recane vi è uno dei villaggi principali della regione, Ljubinska Bistrica. Qui è come se il tempo si fosse fermato e gli abitanti vivessero del tutto isolati dal resto del Kosovo. Le donne del posto sono alte ed hanno i capi coperti di fazzoletti. Non vogliono essere fotografate. Che lingua parlate? "La nostra".

Xhavit Redzhepi è insegnante in una scuola locale e si è occupato dell'identità della propria comunità. Iniziamo con un viaggio nei suffissi dei cognomi: "Negli anni '20 tutti i cognomi sono stati bulgarizzati con i suffissi –ov e –ova, poi dopo il 1947 siamo diventati serbi con il suffisso –ic e recentemente siamo diventati albanesi con il suffisso –i. Le minoranze rischiano sempre di essere manipolate". A suo avviso la regione di Zhupa iniziò ad essere abitata attorno al III – IV secolo d.c. "Siamo arrivati qui prima degli albanesi e prima dei serbi. Spesso non lo si vuole accettare", racconta aggiungendo poi che a suo avviso i propri antenati si erano convertiti all'Islam attorno al 14mo secolo. Xhavit si è anche recato sino ad Istanbul, per ricercare ulteriori informazioni relative alla propria comunità negli archivi che raccolgono i documenti dell'Impero Ottomano. Trovandone però solo scritti in un vecchio alfabeto ottomano che solo gli studiosi di quell'epoca sono capaci di leggere.

Ma anche se questa regione è "isolata" dal resto del Kosovo, ne condivide uno dei problemi principali: la disoccupazione cronica. Gli unici lavori sono quelli legati all'amministrazione. Un insegnante prende 150 euro al mese, un poliziotto 235, un medico 250. Più di metà della popolazione lavora poi in Svizzera, Germania, Italia e Svezia.

Seifo vive in uno dei villaggi della regione. Si prende cura della grande casa di famiglia. Ha due fratelli, uno lavora in Svizzera e l'altro in Germania. "Viviamo di rimesse dall'estero. Qui in paese funzionano solo le scuole e la polizia, poi si coltiva qualcosa nell'orto", racconta.

Le montagne sulle quali vive questa comunità hanno costituito per secoli una barriera naturale ed hanno preservato le tradizioni e la lingua di questa piccola comunità. Che ora però si percepisce sotto pressione, soprattutto perché, in un'eventuale Kosovo indipendente, si sentirebbe a disagio non parlando l'albanese. Quale sarà il loro destino? Preserveranno "i nostri" la loro identità o si dovranno adeguare alla modernità delle loro nuove patrie, in Kosovo ed all'estero?

Osservatorio Balcaniscrive Tanya Mangalakova
Foto di Stefano Feliciani e Luca Mennon

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